Letture

FRANCE-POLITICS-ECONOMY-COMPETITIVENESSda Repubblica 12.9.16
Il benessere del pianeta torni al centro dell’Europa
di Jacques Delors

IL risultato del referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea è solo l’ultimo di una serie di gravi momenti critici che hanno scosso l’Europa negli ultimi anni. Si tratta di un segnale d’allarme che indica la necessità di tenere un dibattito sulla stessa essenza dell’Unione, su come si possano recuperare e rafforzare i valori che hanno fondato l’Europa per combattere l’ascesa del nazionalismo, del populismo e del sentimento anti-europeo.
Crediamo che sia importante avere alla base della nostra visione dell’Europa il benessere del nostro pianeta e della sua gente, piuttosto che il mercato azionario e la crescita puramente nominale dell’economia. Questa idea in realtà non è nuova: dopo il primo vertice di Rio del 1992, avevamo già iniziato a costruire un’Europa articolata nelle tre componenti dello sviluppo sostenibile: economica, sociale ed ambientale.
A partire dal 1995, questa visione è progressivamente venuta meno lasciando il posto ad una attenzione sempre più strettamente legata alla crescita economica. Ciò ha comportato il fatto che i risultati ottenuti dall’Europa come leader mondiale per gli standard ambientali, la lotta contro il cambiamento climatico, la tutela della salute e dei consumatori, l’eliminazione della povertà e la promozione dei diritti umani, non fossero più considerati come successi di cui essere orgogliosi, ma piuttosto come un ostacolo da eliminare nell’interesse di un guadagno economico a breve termine.
I leader che si incontreranno il 16 settembre a Bratislava per discutere il futuro dell’Europa dovranno presentare una nuova visione positiva di un’Europa che si impegni di nuovo rispetto ai cittadini europei e riconquisti la loro fiducia. Questo è ciò che ha richiesto un gruppo di 175 organizzazioni della società civile, sotto l’impulso di Wwf, Concord, Ces e del Forum europeo della gioventù. Mi associo a questo appello perché condivido la loro speranza. Se l’Europa vuole trovare nuove prospettive di vita, è necessario rivolgere una particolare attenzione alle nuove generazioni che, nel Regno Unito e nel resto d’Europa, condividono questi valori e si sentono europei, ma non vogliono impegnarsi in quanto hanno perso la fiducia nella politica tradizionale. È questa generazione che più di ogni altra può portare ad un rinnovamento dell’Europa e che deve impegnarsi in questa lotta per un mondo migliore.
Il dibattito sul futuro dell’Unione europea ha inizio ora e noi dobbiamo fare in modo che l’Europa abbracci il cambiamento che sia in grado di trasformare, attraverso l’agenda globale per lo sviluppo sostenibile e l’accordo sul clima di Parigi. La politica deve dare una svolta decisa per tradurre in azione questi impegni internazionali in cui al primo posto vi siano le persone, il pianeta, la prosperità e la pace. Spetta all’Europa, in quanto maggior attore economico del mondo, aprire la strada con una strategia di implementazione per uno sviluppo sostenibile ad ampio raggio, che sia decisa e intelligente e che rappresenti una guida per tutta la sua attività dei prossimi decenni, sia dentro che fuori l’Europa.
In questo momento di crisi dell’identità europea, è essenziale per l’Ue dimostrare di non essere paralizzata, ma pronta ad agire come forza trainante nelle molte sfide che ci aspettano: la lotta contro i cambiamenti climatici, l’aumento della disuguaglianza, la necessità di garantire uno sviluppo sostenibile e globale, la promozione dei diritti umani e la certezza che nessuno venga lasciato indietro.
Rivolgiamo un appello affinché tutti, soprattutto i giovani d’Europa, nei giorni e nei mesi a venire non restino solo spettatori. Dobbiamo partecipare attivamente alla costruzione di una risposta collettiva in grado di affrontare le sfide del nostro continente e del nostro pianeta.
( L’autore è stato presidente della Commissione europea)

 

 

PROCESSO ALLA DEMOCRAZIA

esposito
Quando Rousseau e Montesquieu temevano pericoli autocratici non avevano previsto il rischio opposto: è possibile che i cittadini siano stanchi di essere rappresentati?


di Roberto Esposito, La Repubblica, 4 ottobre 2015

Il sistema di governo finisce sotto accusa a causa di una politica che appare sempre più incapace di renderlo vitale
Mancano progetti definiti e si avverte la necessità di alzare il tono del discorso pubblico e di ricostruire lo spazio necessario delle regole comuni

Che la democrazia non stesse così bene lo si sapeva da un pezzo. Lo sanno i cittadini e gli scienziati politici. Nel giro di un ventennio i certificati di morte, o quantomeno analisi inclini al pessimismo, si sono succedute a un ritmo incalzante. Se già negli anni Novanta Jean-Marie Guéhenno aveva parlato di “fine della democrazia” (Garzanti), a qualche anno di distanza Colin Crouch coniava il fortunato neologismo “postdemocrazia” (Laterza), mentre Ralf Dahrendorf ci collocava direttamente “dopo la democrazia” (Laterza). Diverse le cause di questo malessere, alcune ben note ai suoi stessi primi teorici. Si sa che Rousseau riteneva il sistema democratico tanto perfetto da convenire solo a un popolo di angeli, così come Tocqueville metteva in guardia in anticipo dalla possibilità di un dispotismo democratico. E a rischi simili pensava Montesquieu quando si preoccupava di proteggere la divisione dei poteri da un eccesso di concentrazione.
I fatti hanno in buona parte smentito tali timori. Oggi la democrazia — o almeno qualcosa che le assomiglia — è di gran lunga la forma politica più diffusa nel mondo. E tuttavia proprio questa straordinaria performance ha messo in evidenza una serie di limiti strutturali che il tempo ha reso ancora più stridenti. Il più paradossale è quello rilevato da Bernard Manin in Principi del governo rappresentativo (il Mulino): nella sua stessa formulazione la democrazia rappresentativa include un ineliminabile elemento aristocratico. Non essendo vincolati da un mandato imperativo e dunque non revocabili in ogni momento da coloro che li hanno eletti, i rappresentanti del popolo non devono rispondere a nessuno delle proprie scelte per tutta la durata della legislatura. Del resto il carattere oligarchico delle democrazie contemporanee è attestato dalla percentuale incredibilmente bassa dei cittadini che partecipano direttamente al governo della cosa pubblica. Il presidente degli Stati Uniti è eletto, ad esempio, da non più del 15 per cento degli aventi diritto al voto. Una buona metà di essi non si iscrive neanche alle liste elettorali e un’altra metà degli iscritti si astiene. Il restante quarto di elettori effettivi si divide quasi sempre con uno scarto minimo, che riduce ancor più i voti confluiti sul presidente eletto. Del resto le dinastie dei Kennedy, dei Bush, dei Clinton non ha il profilo inquietante di una democrazia ereditaria?
Ma a questi limiti, per così dire strutturali, del dispositivo democratico se ne sono aggiunti da qualche tempo altri che hanno accresciuto il senso di disillusione certificato nell’analisi di Roberto Foa e Yascha Mounk. Diverse sono le cause che rendono sempre più friabile, perfino lì dove è nata, la fiducia verso la democrazia. La prima è il contrasto, sempre più palese, tra il contesto statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale del mercato e della finanza che condizionano le politiche pubbliche. Il punto di cedimento sta in quel paradigma di sovranità cui la pratica della democrazia è stata finora legata, messa in crisi da una governance mondiale che fa capo a gruppi di interessi e lobby di carattere non elettivo. A questo deficit di legittimità si associa, potenziandolo, il ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica. È noto che un sondaggio di modeste proporzioni incide sulle scelte governative più di un mese di dibattiti parlamentari, allargando il distacco tra forme e contenuti della democrazia. Un’intera fascia di popolazione resta esclusa dai processi decisionali, concentrati alla fine in poche mani in grado di orientarli in direzione di interessi particolari. Quando poi chi governa è anche padrone, direttamente o indirettamente, di mezzi di informazione, il cerchio si chiude con effetti nefasti nei confronti di quel principio di uguaglianza su cui dovrebbe fondarsi il sistema democratico.
A risultarne colpito non è tanto l’estensione della rappresentanza, quanto la sua reale efficacia. Per certi versi, anzi, quanto più i canali rappresentativi si moltiplicano — ciascuno di noi è rappresentato in sedi diverse, locali, nazionali, internazionali — tanto meno incidono sulla vita effettiva delle persone, dipendente da questioni di carattere biopolitico, quali la sussistenza materiale, la salute, il rapporto con i flussi migratori, etc. Tutto ciò determina una doppia divaricazione. Da un lato quella dei cittadini nei confronti della istituzioni — l’insieme di riserve e di atteggiamenti negativi che Pierre Rosanvallon ha rubricato col termine “controdemocrazia” (Castelvecchi). Dall’altro quella delle istituzioni nei confronti di un popolo sempre più incline a forme di vera e propria antipolitica. Lo scivolamento della legittima protesta contro determinate opzioni governative verso forme di populismo costituisce oggi il rischio maggiore per le democrazie contemporanee, strette nella tenaglia tra disinteresse ed avversione. La deriva populista ha l’effetto controproducente di scavare un solco sempre più profondo tra potere e società rendendo il primo ancora più indipendente dalla seconda. In questo cortocircuito perverso il populismo finisce per espropriare del tutto il popolo dalle decisioni che lo riguardano, mettendo, come diceva M. Gauchet, “la democrazia contro se stessa” (Gallimard).
Come rispondere a questa deriva autodistruttiva? Di antidoti ne esistono. Essi vanno dalla riduzione delle pratiche corporative del ceto politico — liste elettorali bloccate, governi tecnici, finanziamenti illeciti — all’incremento di forme di democrazia diretta, come campagne di informazione, primarie regolate, referendum non solo abrogativi. Ma tutto ciò avrà scarsi esiti se non si va al cuore del problema, che non riguarda tanto la forma, quanto la sostanza, della democrazia. Ad essere alle corde non è tanto il sistema democratico, quanto la politica che dovrebbe renderlo vitale. È questa che sembra dissolversi in discussioni tecniche sugli strumenti che finiscono per perdere di vista i fini. La politica, ridotta ad amministrazione, s’incarica di risolvere solo i problemi emergenti, senza dirci cosa intende fare e perché. Quali sono i suoi progetti e come raggiungerli. E in questo assordante silenzio che le alternative politiche appaiono tutte interne allo stesso modello e dunque irrilevanti. Ciò che manca è la capacità di alzare il tono del discorso pubblico, facendo della democrazia lo spazio necessario delle regole comuni, ma della politica il luogo in cui si confrontano, e affrontano, valori ed interessi diversi e contrapposti.

 

“Democrazia significa resistenza”tzvetan-todorov-filosofo

Intervista al filosofo Tzvetan Todorov

Repubblica 27.12.14
I valori in pericolo, i paesi occidentali “paesi della paura”, la Cia e le torture la necessità di credere nell’Europa.
“L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline”
“La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole”
di Berna Gonzalez Harbour

NEL 2003, Tzvetan Todorov stilò un inventario dei valori, una lista di buone intenzioni che l’Europa ha tentato di esportare nel mondo con la stessa risolutezza con cui ha esportato automobili, ortaggi o tecnologia dell’alta velocità. Non è che inventasse nulla, era tutto già più o meno scritto nelle nostre carte dei diritti, nelle nostre costituzioni: la libertà individuale, la razionalità, la laicità, la giustizia. Sembrava ovvio. Oggi, tuttavia, Todorov vede allontanarsi quei valori come quel punto all’orizzonte che sembrava raggiungibile e invece riappare di nuovo lontano. «Quando diciamo valore, non significa che tutti lo rispettino, è più un ideale che una realtà, un orizzonte verso il quale siamo diretti», dice. «In questo momento, tuttavia, questi valori sono minacciati».
Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.
Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».
Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta».
Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».
Quando i diritti diventano
una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi».
Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».
Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire».
Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera».
Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».

 

Il destino dei partiti senza iscritti
Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso
di Piero Ignazi
, Repubblica 8.10.14

SERVONO ancora gli iscritti ai partiti? O sono il residuato di un tempo mitico e lontano in cui masse (?) di militanti partecipavano intensamente e infaticabilmente ad ogni attività del partito, e con il loro piccolo, modesto obolo della tessera fornivano linfa vitale alla loro beneamata organizzazione? In tutti i paesi europei il calo verticale delle iscrizioni e il sempre più ridotto impegno dei membri indicano una tendenza al declino. In Italia, negli ultimi vent’anni, le fortune dei partiti hanno oscillato paurosamente ma, in complesso, le loro organizzazioni hanno tenuto abbastanza. Questo perché la mitologia dell’iscritto quale “ambasciatore tra società e leadership”, alla fine, ha pervaso anche la destra. Se Fi era nata in dispetto ai partiti tradizionali, e Berlusconi non faceva altro che parlare di movimento evitando di nominare invano quel nome terribile, poi i più accorti e navigati consiglieri lo convinsero che di una cosa che assomigliasse ad un partito c’era proprio bisogno. E così anche Fi si mise a reclutare ed inquadrare i propri sostenitori vantando cifre mirabolanti di adesioni, addirittura 401.004 a fine febbraio 2007, record storico dopo i 312.863 del 2000; e tutta quella massa di iscritti era suddivisa in ben 4.306 coordinamenti comunali. Altro che partito “leggero”. E an- cora oggi, persino chi incarna l’anti-partito per eccellenza, il M5s, dichiara orgogliosamente di avere più di mille meetup (termine esotico per indicare le sezioni) e più di 100 mila iscritti, secondo quanto affermato pubblicamente da Gianroberto Casaleggio nel maggio scorso.
Il punto è che l’alto numero di iscritti rafforza la legittimità del partito: dimostra che è in grado di raccogliere consensi non effimeri e convinti, che ha una capacità di convinzione nei confronti dei cittadini più forte del semplice rito sporadico del voto, che dispone di “truppe” mobilitabili all’occasione prima di altri e più intensamente di altri. In sostanza, che il rapporto con la società è profondo e ampio: non è limitato solo ai professionisti della politica, cioè agli eletti e ai dirigenti nazionali. Tutte ragioni, insomma, per fare dell’iscrizione un obiettivo centrale di ogni organizzazione partitica. Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso verso un partito. E magari a sostenerlo econo- micamente. Tutti i partiti — meno uno, il Pvv olandese del populista Geert Wilders che ha un solo aderente, lui stesso — cercano quindi di reclutare nuovi membri. Per smuovere l’indifferenza, scontando l’ostilità inattaccabile di quelli che hanno voltato le spalle alle politica e non ne vogliono più sapere, molte formazioni europee hanno fornito ulteriori incentivi agli iscritti: principalmente poter scegliere direttamente, senza intermediazioni, i dirigenti e i candidati alle elezioni di ogni livello, ed essere consultati con un referendum sulle grandi questioni (memorabile a questo proposito il referendum sull’adesione o meno al trattato costituzionale dell’Ue indetto dai socialisti francesi nel 2004 al quale partecipò l’83% degli iscritti!). Questi incentivi, in realtà, non hanno invertito la tendenza negativa. L’emorragia di iscritti continua più o meno intensamente ovunque in Europa. E il Pd, inevitabilmente, segue la tendenza. Però ha aggiunto qualcosa in più per scoraggiare le iscrizioni: l’avere incluso anche gli elettori nei processi decisionali interni. Coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 1 dello statuto del Pd, approvato a suo tempo (2007) dai vecchi esponenti della ditta e promosso soprattutto dalla componente prodiana — “il partito (…) è costituito da elettori ed iscritti“ —, le scelte più importanti sono state demandate alla più ampia platea dei sostenitori. In realtà, costoro, a norma di statuto, dovrebbero essere inclusi in un apposito Albo, ma se ne sono perse le tracce… Ad ogni modo, nel momento in cui iscritti ed elettori sono sullo stesso piano, l’incentivo a prendere una tessera sfuma ulteriormente. L’evaporazione degli iscritti pone però un problema non irrilevante perché marginalizza gli spazi e le occasioni di discussione e di elaborazione politica. Tutte le leggi sui partiti che la maggior parte dei paesi europei ha introdotto specificano che, oltre al momento della scelta e della decisione, siano previsti anche momenti di discussione interna. Se questo aspetto viene invece considerato residuale perché tutto è rivolto a mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica nelle scelte dei candidati o dei leader, il partito perde linfa vitale. Così contano gli slogan e l’immagine. Il Pd, come altri partiti peraltro, rischia di configurarsi come un’arena fluida e destrutturata dove il meccanismo della incoronazione-legittimazione plebiscitaria vince sulla definizione collettiva di politiche. Il destino dei partiti senza iscritti e senza sedi di dialogo e riflessione è quello di ridursi ad uno spazio dove si mettono in scena scontri di personalità. E dove i leader si appellano direttamente all’opinione pubblica saltando a piè pari quel ferrovecchio di un partito dissanguato. Questa modalità di organizzazione è funzionale alle leadership con pulsioni plebiscitarie ma isterilisce la democrazia perché il dialogo ammutolisce.

 

L’Occidente salvato dalla lotta di classe
Politica in declino, populismi in crescita, attivisti che “emigrano” con le Ong. Ma la sfida per la democrazia va affrontata a casa nostra
di Michael Walzer

La Repubblica, 1 maggio 2014
Che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali — che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni multi-culturali?
Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”. Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica?
Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra, ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il piane- ta sono molto popolari oggi. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito).
Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.
L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione.
Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’«abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali». Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante. ( Traduzione di Anna Bissanti)

La Repubblica, 24 marzo
Se il mondo paga il prezzo di una teoria sbagliata
di Joseph E. Stiglitz

Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.
Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero.
Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari. Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere – se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese. A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione.
Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa.
La politica americana odierna aggrava questi problemi. Anche nella migliore delle ipotesi, la vecchia teoria del libero commercio diceva soltanto che i vincitori avrebbero potuto risarcire i perdenti, non che l’avrebbero fatto. E così è stato: non l’hanno fatto. Anzi, hanno fatto il contrario. I sostenitori degli accordi commerciali spesso affermano che per far diventare competitiva l’America non si dovranno tagliare soltanto i salari, ma anche le tasse e le spese pubbliche, soprattutto quelle relative a programmi che vanno a sostegno dei normali cittadini. Dovremmo accettare di soffrire a breve termine, dicono, affinché sul lungo periodo ne traggano beneficio tutti. Ma, come disse una volta John Maynard Keynes in altro contesto, «nel lungo periodo saremo tutti morti». In questo caso, ci sono poche prove dalle quali evincere che gli accordi commerciali porteranno a una crescita più rapida o più profonda. I critici del Partenariato trans-pacifico (Tpp, Trans-Pacific Partnership, Trattato di libero scambio con 11 nazioni del Pacifico intorno alla Cina, NdT) abbondano perché sia l’iter sia la teoria sulla quale esso si basa sono un fiasco. L’opposizione al Tpp è fiorita non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Asia, dove i colloqui si sono arenati.
Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali – e la globalizzazione più in generale – siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani. L’esito di questa guerra è tuttora incerto. Più volte ho ribadito due punti: il primo è che l’alto livello di disuguaglianza presente oggi negli Stati Uniti (e il suo enorme aumento negli ultimi trent’anni) è il risultato cumulativo di tutta una serie di politiche, programmi e leggi. Tenuto conto che il presidente stesso ha sottolineato che la disuguaglianza è la priorità numero uno del paese, ogni nuova politica, ogni nuovo programma, ogni nuova legge dovrebbe essere valutata dal punto di vista del suo effettivo influsso sulla disuguaglianza. Accordi come quello del Tpp hanno contribuito in modo sostanziale a questa disuguaglianza. Le multinazionali potrebbero trarne beneficio, ed è addirittura possibile, per quanto non garantito, che migliori anche il prodotto interno lordo così come è misurato per prassi. È assai probabile, però, che il benessere dei normali cittadini subirà un duro colpo. E questo mi porta al secondo punto, che ho più volte sottolineato: l’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali – come farebbe il Tpp – non necessariamente aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso.

Corriere della Sera, 6 marzo 2014
Se giovanilismo e velocità sono le nuove parole d’ordine
di Corrado Stajano

L’Italia non si è desta, almeno sembra. Appare più passiva che
fervida, non soltanto a causa della crisi economica e finanziaria. È rimasta quel che è sempre stata: non ha perso l’antico vizio di delegare ad altri l’onere di risolvere i problemi della comunità. Si è affidata così all’uomo della provvidenza di turno che non nasconde la sua smisurata ambizione, ma promette di cancellare le brutture, la vecchia politica e fa intravedere una vita serena.
Il giovanilismo, con un’ipoteca populista, e la velocità del fare sembrano le nuove parole d’ordine. Ma l’età giovane priva di esperienza, di competenza, di conoscenza dei problemi di un governo e di uno Stato non può essere una medaglia al valore. I Leopardi, i Gobetti, i Gramsci nascono poche volte in un secolo. Tralasciando i geni si capisce però che c’è un burrone tra la classe dirigente venuta dopo la seconda guerra mondiale e quella di oggi. Le altalene delle generazioni e della storia.
A Renzi non viene qualche sospetto quando, con la sicurezza del neofita, comunica al popolo che risanerà tutto in un battibaleno? Sa che l’Italia è gravemente ammalata, che la crisi della politica, soprattutto, è anche morale, civile, sociale, culturale? I partiti, sbrindellati, in profonda difficoltà, non riescono più a coinvolgere i cittadini.
C’è una gran confusione in quel che sta succedendo o meno.
Che sorte avrà veramente la legge elettorale di cui si parla da anni? Adesso è approdata a Montecitorio, tra rotture e compromissioni. Il costituzionalista Michele Ainis, sul Corriere dell’altro ieri, dopo gli emendamenti presentati sulla data di attuazione, poi ritirati, che hanno buttato tutto all’aria facendo sospettare a ragione chissà quali patti segreti tra Renzi, il suo amico Verdini, plenipotenziario di Berlusconi, e altri, ha scritto che sarebbe il caso di riaprire i manicomi chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia.
Dev’essere approvata prima la legge elettorale o quella costituzionale — una lunga marcia — che dovrebbe fare del Senato una specie di camera dei fasci e delle corporazioni, trasformandolo in un’assemblea con i seggi attribuiti a chi ricopre già una carica elettiva? Si è deciso poi — Renzi e Berlusconi — che si voterà con un sistema per la Camera e con un altro sistema per il Senato. Sembra un’assurdità dopo quel che è successo alle ultime elezioni: i guasti, infatti, sono nati proprio di lì. Ci dovrà pensare di nuovo la Consulta? L’impressione è che la vera posta in gioco siano le elezioni. Si sono accelerati i tempi e l’accordo è nato proprio per impedirle?
È chiaro soltanto che questo è il governo Renzi. Un uomo solo al comando, ma non è Bartali, non è Coppi — tempi antichi —, non è neppure Pantani, tempi moderni. Con alle spalle, se si eccettua il non entusiasta ministro dell’Economia Padoan, una squadra grigiastra, «di personalità piuttosto modeste che non gli faranno ombra», ha scritto Marcelle Padovani su Le Nouvel Observateur . «La maggior parte dei ministri sono dei principianti».
Matteo Renzi non ha esperienze parlamentari, governative, internazionali, non conosce i regolamenti delle assemblee e la forza della burocrazia ministeriale, ha solo la pratica di presidente della Provincia e di sindaco di Firenze, 377.000 abitanti, con il suo cerchio magico. Vengono i brividi a pensare che dovrà discutere con la Merkel, con Obama, che siederà all’Onu, parteciperà al G8, avrà a che fare con tutti i marpioni del mondo affidandosi al suo chiaro linguaggio di ragazzo — un fanciullino, come dice Giovanni Sartori — che vuol mettere tutti a proprio agio, minimizzare le gravosità della vita, promettere, soprattutto. Detto e fatto. Il presidente Napolitano, visto che è stata esclusa, chissà perché, dal ministero Emma Bonino, esperta e conosciuta nel mondo, dovrà prendersi, tra l’altro, anche l’interim occulto degli Esteri per non far fare una figura barbina al paese della «Grande bellezza».
Dall’aldilà gli uomini del CAF, Craxi, Andreotti, Forlani e i loro predecessori non nasconderanno l’invidia. Altro che deprecato manuale Cencelli. La giostra dei sottosegretari non è stata mirabile, tra la rimediata storiaccia calabrese, l’esclusa del Pd in Sardegna perché indagata e subito risarcita, i berlusconiani «pentiti» — sembra — protagonisti delle vergognose leggi ad personam, inseriti proprio al ministero della Giustizia, quel che interessa a B..
I sondaggi per Renzi sono ora positivi, ma se le promesse non saranno rispettate con la velocità del suono farà in fretta a diventare una meteora, come ha scritto il Financial Times e ha ribadito L e Monde di sabato: «Potrebbe diventare una stella cadente».
Non tutti i cittadini hanno digerito quel che è successo dalle elezioni dell’anno scorso a oggi, la congiura di palazzo, il Pd che licenzia il suo presidente del Consiglio e mette al suo posto il nuovo segretario, una mescolanza di dramma e di carnevale da cui Enrico Letta e anche Bersani sono usciti con alta dignità. Quella fotografia dei due che si abbracciano nell’aula plaudente di Montecitorio è un documento storico. Ma ad applaudire sono stati anche i 101 suicidi del Pd che hanno votato contro Prodi?

La Repubblica 18.2.14
Le città insensibili
Quei ghetti che non vediamo nelle metropoli della solitudine
Perché la paura del contatto con l’altro provoca la fuga dai quartieri “misti” E influenza sempre più i piani urbanistici
di Richard Sennet

Nelle moderne forme urbane, in modo forse meno evidente, è assente quell’esperienza che Guy Debord definisce “non rappresentabile”, cioè quella mescolanza di popoli e di attività che possono far percepire l’ambiente come sconosciuto, uno spazio problematico che porta una persona a interrogarsi sul suo habitat. La città, al contrario, è diventata una mappa sempre più chiara di funzioni distinte in spazi segregati. Dal momento che queste divisioni, che sono burocratiche, non producono stimoli, la nostra epoca si configura come quella in cui la forma urbana non favorisce la vivacità dell’esperienza dei sensi.
In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente consapevole di sé. (…) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale. Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della consapevolezza corporea di sé. Visto come stanno le cose, potremmo essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è esattamente quello che sembra. (…) Dare la colpa ai progettisti professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera la passività.
Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare illuminanti per l’osservatore moderno. In Beer Street e in Gin Lane, Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione, mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine sociale. Gin La ne raffigura invece una scena in cui non c’è contatto fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano.
Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio, probabilmente fareste un balzo indietro per la paura – e così del resto farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di incanalare il traffico in modo da isolare lacomunità residenziale dal quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o etnicamente diverse. Nello sviluppo della comunità, i progettisti prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici acquirenti come modello di vita ideale.
Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il movimento.
Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del
De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche quelle di altre figure professionali.
Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento, ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (…) Queste credenze sul movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana. Il Piano L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente verso i luoghi e i santuari del potere.
È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.
Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo: questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri, in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di beni, di servizi e di informazioni.

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Se il governo del paese lo decidono le primarie del Pd

Alberto Asor Rosa, il Manifesto, 14.02.14

Ho pas­sato buona parte della mia vita (poli­tica e civile, s’intende) a com­bat­tere le scle­rosi con­ser­va­trici dell’assetto politico-istituzionale ita­liano, la sua gene­tica pro­pen­sione a per­cor­rere e riper­cor­rere senza fine le vec­chie abi­tu­dini e i vec­chi vizi. Dopo il mio ultimo arti­colo (“Nuovi, ma diversi”, il manifesto, 16 gen­naio) sono stato attac­cato da destra e da sini­stra (si fa per dire) come difen­sore intran­si­gente dello sta­tus quo, sordo alle esi­genze del nuovo che avanza. Ancora una volta era tutto il con­tra­rio: mi sono sfor­zato, come sem­pre, di mostrare di quale vec­chiume gron­dasse, die­tro le super­fi­ciali appa­renze, il nuovo che avanza.

Non mi sarei aspet­tato però, — lo dico con grande sin­ce­rità, — che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza sve­lasse così chia­ra­mente il grumo di ottusa bru­ta­lità e di ata­vica ripe­ti­ti­vità, che esso nasconde. Mi rife­ri­sco ovvia­mente a quanto è acca­duto in seno alla (sedi­cente) Dire­zione del Pd, e nei suoi din­torni. Sem­pre più provo l’impressione che inter­preti e com­men­ta­tori della vicenda poli­tica ita­liana, ottusi (in que­sto caso uso il ter­mine in senso stret­ta­mente tec­nico) dal loro lungo mestiere, abbiano perso il senso delle cose che accadono.

Dun­que:

  1. La Dire­zione di un Par­tito rove­scia a lar­ghis­sima mag­gio­ranza un Pre­si­dente del Con­si­glio che fa parte di quella Dire­zione ed è espo­nente auto­re­vole e rispet­tato di quel Partito;
  2. Di tale deci­sione non viene data nes­suna (non intendo dire: nes­suna cre­di­bile, sia poli­tica, sia sociale, sia eco­no­mica, sia per­so­nale; dico nes­suna) spie­ga­zione, che non sia l’energizzazione vita­li­stica del processo;
  3. Non c’è pro­gramma, non c’è pro­po­sta, non c’è dire­zione di mar­cia, non c’è (una pos­si­bile e nuova) meto­do­lo­gia del con­fronto e dell’agire poli­tico, non c’è indi­ca­zione di una nuova maggioranza;
  4. L’energizzazione vita­li­stica del pro­cesso viene per­ciò affi­data inte­ra­mente alle pre­sunte (molto pre­sunte) capa­cità spet­ta­co­lari di un pro­ta­go­ni­sta, Mat­teo Renzi.

Ossia un poli­tico di cui in realtà non si sa nulla, né capa­cità ammi­ni­stra­tive nazio­nali né rela­zioni inter­na­zio­nali né cul­tura poli­tica, ma solo la “smi­su­rata ambi­zione” di rag­giun­gere il “suo” risul­tato il prima pos­si­bile, rove­sciando il tavolo, offrendo i sodali, igno­rando le regole, esi­bendo atti­tu­dini cabarettistiche.

Ma c’è di più, c’è qual­cosa che rende il tutto, — in sè grot­te­sco e addi­rit­tura inve­ro­si­mile, — peri­co­loso e da guar­dare con il mas­simo dell’attenzione. In un regime democratico-rappresentativo il potere, anche quello per­so­nale, si forma lungo i raggi di una filiera che pre­senta, a ogni suo snodo, un’occasione di veri­fica e, nel caso, di pro­mo­zione.
Sap­piamo benis­simo che que­sto modello, — che può anche non esserci pia­ciuto molto in pas­sato, ma di cui finora non s’è tro­vato uno migliore, — è già stato, ed è tut­tora, almeno in Ita­lia, logo­rato da mol­te­plici motivi di deca­denza. Ber­lu­sconi e il ber­lu­sco­ni­smo, Grillo e il gril­li­smo, ne costi­tui­scono gli esempi più clamorosi.

Renzi e il ren­zi­smo costi­tui­scono l’improvviso e improv­vi­sato ade­gua­mento del cen­tro­si­ni­stra e della sini­stra a tale model­liz­za­zione politico-istituzionale non democratico-rappresentativa (forse potremmo dire, da que­sto momento in poi, più fran­ca­mente antidemocratico-rappresentativa). Ma que­sto già lo sape­vamo, e l’abbiamo per giunta già detto. Cos’è suc­cesso allora per stu­pirci e pre­oc­cu­parci di più, molto di più? E’ suc­cesso che lo schema non democratico-rappresentativo viene ora tra­sfe­rito, senza sforzo appa­rente, dal livello di una forza politico-partitica, sia pure di prim’ordine, a quello del governo del paese. Ossia: anche il governo del paese viene sot­tratto al mec­ca­ni­smo delle veri­fi­che e delle pro­mo­zioni con­nesse tra­di­zio­nal­mente con il sistema democratico-rappresentativo, e dele­gato a una pro­ble­ma­tica, anzi oscura con­sul­ta­zione extra-democratico-rappresentativa.

E cioè: l’unica fonte (chiedo a tutti di riflet­tere su que­sta spe­ci­fi­ca­zione che spiega tutto: l’unica, l’unica, l’unica) del potere ren­ziano è il risul­tato delle pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013, in cui ha scon­fitto i due can­di­dati alter­na­tivi, Cuperlo e Civati. Io con­te­sto (posso farlo tran­quil­la­mente: l’ho fatto da sem­pre) il valore legit­ti­mante, in senso democratico-rappresentativo, delle cosid­dette pri­ma­rie. Le pri­ma­rie pos­sono avere un valore orien­ta­tivo per la scelta di un can­di­dato di coa­li­zione in pre­senza di una prova elet­to­rale. Sono un’aberrazione ine­nar­ra­bile quando ne deri­vano la carica di Segre­ta­rio di un Par­tito, e il pra­tico, con­se­guente impos­ses­sa­mento di que­sto (mag­gio­ranza asso­luta in dire­zione, ecc. ecc.). Sarebbe come se gli organi diri­genti della Shell o dell’Eni fos­sero scelti dai pas­santi che si tro­vano a tran­si­tare in un giorno casual­mente scelto nella strada sotto le loro sedi. Se tale pro­ce­dura, per giunta, è stata messa in sta­tuto, affa­racci loro, e cioè degli stu­pidi uomini della Shell o dell’Eni, o di quel par­tito di cui stiamo par­lando. Ma se il mec­ca­ni­smo viene tra­sfe­rito di peso alla for­ma­zione di un Governo, che dovrebbe rap­pre­sen­tarci tutti, non sono più affa­racci loro, sono affari nostri. Che c’entriamo noi con l’arroganza e insieme con la stu­pi­dità del gruppo diri­gente del Pd, pas­sato e presente?

Di con­se­guenza io con­te­sto dura­mente anche la leg­git­ti­mità di un Governo che sulla base di code­ste pro­ce­dure fondi la genesi della sua costi­tu­zione come for­ma­zione di potere nella gestione delle cose ita­liane, cioè le nostre. E’ la prima volta che accade nella sto­ria dell’Italia repub­bli­cana. Per­fino il Cava­liere è andato più volte al Governo con la forza del voto. Quando non ne aveva abba­stanza, li com­prava. Ma al dun­que, com­prati o no, sem­pre voti in Par­la­mento erano. I voti su cui Renzi fonda la pro­pria pre­tesa di andare ipso facto al Governo sono quelli della massa che poli­ti­ca­mente non si esprime, resta a guar­dare, è capace sol­tanto di quel gesto ple­bi­sci­ta­rio che affida a qual­cuno, il Pre­de­sti­nato, le pro­prie sorti. Disprezzo per la “demo­cra­zia diretta”, per la “demo­cra­zia dal basso”? Figu­ria­moci. Disprezzo sol­tanto per tutto ciò che delega ad altri, senza sfor­zarsi di emer­gere, il pro­prio destino. L’Italia, ahimè, ha una solida tra­di­zione in que­sto campo, e la coa­zione a ripe­tere, in tempi, obiet­ti­va­mente, di crisi interna del sistema democratico-rappresentativo, torna a riemergere.

In attesa di orga­niz­zare una rispo­sta al di fuori della cer­chia attuale del potere, — qual­cosa come sap­piamo si è già comin­ciato a fare, — l’ultima trin­cea resta per ora il Par­la­mento, que­sto Par­la­mento. Dio mio. Una buona discus­sione sull’illegittimità politico-istituzionale e costi­tu­zio­nale delle pro­ce­dure fin qui seguite ser­vi­rebbe comun­que in tale sede a defi­nire, pre­ci­sare e con­fi­nare nei suoi limiti que­sta ine­dita, ed enne­sima, scia­gura ita­liana. Chi vota Renzi in Par­la­mento vota espli­ci­ta­mente per la deca­denza della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in que­sto paese: cioè vota con­tro gli orga­ni­smi stessi in cui vive ed opera.

Né s’invochino, per favore, come ormai si fa da decenni, le sorti poli­ti­che, eco­no­mi­che ed euro­pee della povera Ita­lia. L’ultimo a poterlo fare con qual­che leg­git­ti­mità, almeno for­male, è stato Enrico Letta. Tolto di mezzo Letta, l’Italia sta altrove.
Chi come me non ha smesso di pra­ti­care sonde che con­sen­tono di rile­vare rea­zioni nel corpo vivo del paese, coglie tutt’intorno una stu­pe­fa­zione pro­fonda, un senso di smar­ri­mento senza pari. Forse il (mode­sto) Con­du­ca­tor sta per­dendo la sua ener­gia vita­li­stica pro­prio nel momento in cui essa sem­bre­rebbe por­tarlo al ver­tice. Que­sto paese, cui si vor­rebbe negare tutto, si sta indi­gnando. Non è poco.

da La Repubblica 12.2.14
Dai testi religiosi al pensiero laico e fino alla Costituzione torna il  richiamo alla tutela della Terra, bene comune, contro l’ecocidio
La bellezza ci salverà
La santa alleanza di ambiente, paesaggio e cultura
di Salvatore Settis

«È urgente elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all’azione, innescata dal bene comune e indirizzata alla politica». Sono parole di Jacques Maritain all’Unesco, nel clima della guerra fredda (1947). Ma valgono ancora oggi come un’agenda minima per reagire alla devastazione della natura, al cieco accanimento con cui (gli italiani in prima linea) continuiamo a distruggerla cannibalizzando ambiente e paesaggi. Si suol dire che «la bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij (nell’Idiota) mette in bocca al principe Myškin, e che in quel contesto hanno un contenuto intensamente mistico. Ma non dobbiamo usarle come un mantra auto-assolutorio: dovremmo sapere, invece, che la bellezza non salverà il mondo se noi non sapremo salvare la bellezza.
Intuizioni religiose e pensiero laico devono convergere, secondo le parole di Maritain. Proviamo a darne qualche esempio. Isaia 5,8: «Guai a voi che ammucchiate casa su casa e congiungete campo a campo finché non rimanga spazio e restiate i soli ad abitare la Terra. Ha parlato alle mie orecchie il Signore degli eserciti: “Edificherete molte case ma resteranno deserte per quanto siano grandi e belle e, non vi sarà nessuno ad abitarle”». Parole che paiono scritte per l’Italia di oggi, dove si edifica “casa su casa” in nome della favoletta secondo cui solo l’edilizia è motore di sviluppo; ma i 5 milioni di appartamenti invenduti e la cementificazione del territorio senza nessun rapporto con l’inesistente crescita demografica dimostrano che non è così. Al di là di questa suggestione, il passo di Isaia evidenzia efficacemente il contrasto fra crescita delle case e devastazione dei campi coltivati.
Altro esempio tratto dai libri sacri, il detto Ama il prossimo tuo come te stesso, che è già nel Levitico e poi nei Vangeli. Commentandolo, Enzo Bianchi ha scritto che questo precetto «non basta più; oggi bisogna dire: “Amerai la Terra come te stesso”»; perché la Terra non è «uno scenario per l’uomo, ma costituisce una comunità la cui relazione è stretta e decisiva per gli animali, per le piante, per noi. In cui uno stesso spazio è condiviso ed abitato ed in cui vive un unico destino, in cui ci deve essere solidarietà per abitare armoniosamente in pace la Terra ». Ma che cosa voleva dire Nietzsche, quando (in una pagina del Così parlò Zarathustra) scrive: «Il vostro amore del prossimo è cattivo amore per voi stessi. Vi consiglio io forse l’amore per il prossimo? No; io vi consiglio la fuga dal prossimo e l’amore verso i più lontani; perché più nobile dell’amore per il prossimo è l’amore per i più lontani e per l’avvenire. Il “futuro” e “quel che è più lontano” siano dunque, per te, la causa che genera l’oggi». Dietro l’apparente svalutazione del precetto evangelico emerge la sua radicalizzazione: in nome della superiorità del futuro sul presente, Nietzsche suggerisce che dobbiamo amare non tanto i “prossimi”, troppo simili a noi, bensì i lontani: soprattutto i lontani nel tempo, le generazioni future. È per loro che dobbiamo preservare la Terra.
Nella vivace discussione sui diritti delle generazioni future, i temi ricorrenti sono la protezione del clima e dell’atmosfera, la conservazione della biodiversità, la tutela dell’ambiente, la gestione delle fonti di energia e dei rifiuti, il controllo delle biotecnologie, la tutela del patrimonio culturale. Il nesso forte tra bellezza e salute (del corpo e della mente), e dunque fra “paesaggio” e “ambiente”, è parte essenziale di questa storia, che ha radici assai antiche. In un trattato attribuito a Ippocrate, Arie acque luoghi(fine del V secolo a.C.) è chiaro il nesso fra malattia e ambiente; perciò le patologie vi sono distinte fra “comuni” a tutti e “locali”, cioè legate a infelici condizioni ambientali. Fu questa una preoccupazione costante della medicina greca, e non solo: un decreto di Atene del 430 a.C. vietava «di mettere i pellami a imputridire nel fiume Ilisso, di praticare in quell’area la concia delle pelli e di gettarne gli scarti nel fiume». Nello stesso spirito, Platone scrive nelle Leggi che «l’acqua si inquina facilmente; perciò è necessario proteggerla per legge. E la legge deve punire chiunque corrompa l’acqua sapendo di farlo, condannandolo a pagare un’ammenda e a ripulire l’acqua a proprie spese».
Oggi dobbiamo ripetere gli stessi identici principi, ma estendendo enormemente lo sguardo. Nessun crimine ambientale è abbastanza lontano da noi da poterlo ignorare: non la deforestazione in Brasile, non il “continente di plastica” (grande quattro volte l’Italia) che galleggia nel Pacifico, non la distruzione di specie vegetali e animali nel Madagascar, non le conseguenze dei disastri nucleari in Ucraina e in Giappone. In questo pianeta senza vere lontananze, “l’amore verso i più lontani” fa tutt’uno con la cura per noi stessi. Ma le generazioni future hanno davvero diritti, anche se non sono in grado di rivendicarli? E in nome di che cosa noi dobbiamo rappresentare oggi i loro diritti di domani?
Distinguiamo, come facevano i Romani, gli immutabili principi del Diritto (ius)dalla mutevole varietà delle leggi (leges),calibrate ad arbitrio dei governanti. Orientiamo la bussola sulle istanze di fondo di un alto sistema di valori incardinato sulla protezione della natura e della salute umana, ma anche sull’etica pubblica e la moralità individuale. Le singole leggi possono conformarsi o meno a questi alti principi, ma quando non lo fanno la disobbedienza civile è un dovere. Disobbedienza ispirata dalla nozione di pubblico interesse, che rilancia temi assai antichi: perché quando gli antichi Statuti dei Comuni e le leggi degli Stati preunitari parlavano di bonum commune o di publica utilitas avevano di mira proprio i diritti delle generazioni future, ed è per questo che hanno costruito per noi le città che abitiamo, i paesaggi che andiamo devastando.
Nel suo Principio responsabilità(1979), Hans Jonas scrive che «la comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità ». È «l’imperativo ecologico», che secondo Peter Häberle comporta «un nuovo sviluppo dello Stato costituzionale, che deve ormai assumere responsabilità verso le generazioni future, e perciò è obbligato a tutelare l’ambiente, deve cioè diventare uno Stato ambientale di diritto». È di qui che nascono la nozione di ecocidio e la proposta di creare un tribunale internazionale contro i crimini ambientali. È di qui che ha origine il nesso forte fra diritto ambientale e diritto alla salute, che si sta affermando nelle nuove Costituzioni come quella della Bolivia (2009), che prescrive «un ambiente sano, protetto ed equilibrato» per «gli individui e le comunità delle generazioni presenti e future» (art. 33). Ma la priorità del bene comune è centralissima già nella nostra Costituzione, in particolare nell’art. 9 (tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), nel suo intimo nesso con l’art. 32 (diritto alla salute), evidenziato dalla Corte Costituzionale. Ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca. Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia. Per la nostra Costituzione, attualissima ma inattuata, la tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli è strumento di libertà e di democrazia. Perciò è triste che si parli tanto di cambiare la Costituzione, e così poco di metterne in pratica i principi e lo spirito.

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La proposta di accusa nei confronti del Presidente: un’iniziativa strumentale

di Claudio De Fiores (da Costituzionalismo.it)

La procedura del giudizio di accusa rappresenta uno degli iter più complessi previsti dal diritto costituzionale italiano. Essa si articola in due fasi. La prima coincide con l’attività di indagine svolta da un Comitato parlamentare composto dai membri delle Giunte per le autorizzazioni a procedere del  Senato e della Camera. Questa fase si conclude con la decisione che il medesimo Comitato dovrà assumere di archiviare il caso oppure di rinviare la questione al Parlamento. Sarà, pertanto, il Parlamento riunito in seduta comune a decidere le sorti  della messa in stato d’accusa (con deliberazione adottata a maggioranza assoluta e scrutinio segreto).

La seconda fase (eventuale) si svolge davanti alla Corte costituzionale in composizione integrata (la composizione ordinaria della Corte viene integrata da altri sedici giudici estratti a sorte da un elenco di cittadini che il Parlamento è chiamato a compilare ogni nove anni). Il processo si conclude con una sentenza (non soggetta a impugnazione).

Dalla sommaria descrizione delle procedure a cui è soggetta la messa in stato d’accusa appare evidente che l’iniziativa del M5S sia condannata all’insuccesso non disponendo dei voti necessari per accedere alla seconda fase del procedimento (il giudizio della Corte costituzionale).

Si tratta pertanto di un’iniziativa strumentale destinata a suscitare solo un forte clamore mediatico in Italia (e soprattutto all’estero), ma del tutto inidonea a sortire i suoi effetti sul piano costituzionale. E probabilmente proprio questo era l’intento perseguito dal M5S. Occupare la scena politica, carpire l’attenzione dei cittadini, portare avanti l’offensiva politica contro la cd. “casta” annoverando ora fra i suoi componenti anche il Presidente Napolitano. Ma nulla di più.

È quanto è possibile evincere anche dallo scarso rigore giuridico con il quale il M5S ha proceduto alla stesura dei capi di accusa.  Al Presidente della Repubblica vengono imputate condotte, esternazioni, decisioni, in taluni casi certamente opinabili, ma tuttavia non tali da integrare il reato di attentato alla Costituzione. La dilatazione dei poteri presidenziali (anche se notevole come lo è stata in questi anni) rientra nella fisiologia del sistema costituzionale e non può essere perseguita ai sensi dell’art. 90.

Certo, una alterazione delle dinamiche presidenziali è oggi in atto, ma si tratta di un fenomeno da leggere e interpretare alla luce delle debolezze del sistema politico.  Ci troviamo di fronte ad una drammatica crisi delle istituzioni democratiche che le pulsioni conservatrici all’interno dei partiti e la loro incapacità di autoriformarsi hanno ulteriormente aggravato. Perché è evidente che non è stato l’interventismo presidenziale la causa della debolezza della politica italiana. Ma semmai – a contrario – è stata proprio la debolezza della politica ad aver alimentato in questi anni l’interventismo presidenziale. Le vicende che hanno portato alla rielezione del Capo dello Stato le ricordiamo tutti: l’invocazione del Presidente Napolitano nella veste di “salvatore della Repubblica”, il tono sferzante del suo messaggio di (re)insediamento, la formazione del governo delle larghe intese.

Ma ciò non può consentirci di ritenere la sua rielezione un attentato alla Costituzione. E semmai per qualcuno lo fosse questo reato andrebbe esclusivamente imputato alla maggioranza di governo che lo ha eletto e non ad altri. E così l’uso abnorme della decretazione di urgenza, il tentativo scellerato di avviare le riforme derogando all’art. 138 e così via.

Così come al M5S possono anche non piacere il modo il cui il Presidente della Repubblica ha in questi anni interpretato il potere di grazia o i suoi rapporti con la magistratura. Ma da qui ad affermare che il Capo dello Stato abbia compiuto un attentato alla Costituzione ce ne passa.

L’ipotesi specifica di attentato alla Costituzione riguarda solo gli atti anticostituzionali. Atti cioè premeditati – come recita anche l’art. 61 della Costituzione tedesca – a realizzare una “violazione intenzionale della Legge fondamentale” e in quanto tali caratterizzati da dolo specifico.

Insomma, se il Presidente della Repubblica si atteggia a “reggitore dello Stato in crisi” è innanzitutto perché i circuiti politico-parlamentari oggi non funzionano più. E la migliore dottrina italiana ci aveva avvisato che ciò sarebbe potuto succedere. Ma l’attentato alla Costituzione è altra cosa.

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Il Corriere del Veneto, 2 febbraio 2014

 Studenti-immigrati3IL FENOMENO E LE CONSEGUENZE

GLI IMMIGRATI CHE SE NE VANNO

di VITTORIO FILIPPI

No, la tanto temuta invasione non c’è, si è arrestata, anzi arretra, si dilegua, sconfitta ed inseguita da una recessione economica aggressiva e spietata. Insomma «l’orda» degli stranieri – per usare il titolo del bel libro di Gianantonio Stella – batte in ritirata, bloccata in extremis dal fiume Piave della crisi, un fiume gonfio e minaccioso di posti di lavoro persi e di aziende chiuse.

Insomma per chi temeva l’invasione (degli stranieri) del sacro suolo della patria i numeri sfornati ora dall’istat sono musica. Perché dicono che l’immigrazione sta decisamente rallentando i suoi ritmi di ingresso. In Italia come anche in Veneto, fino a poco tempo fa una delle aree del paese più attrattive per gli stranieri. Specie a Verona, Vicenza e Treviso. 1 numeri sono significativi: negli ultimi anni il numero degli immigrati che venivano a risiedere in Veneto era crescente, fino a raggiungere i 54 mila nel 2007. Poi, come ben sappiamo, scoppia la crisi. Poi il numero scende e a parte la risalita del 2010 (in cui parve che la crisi fosse sul punto di concludersi) si arriva al 26 mila del 2012. Meno della metà.

Ma non è finita. Per la gioia degli xenofobi gli stranieri non solo rallentano i loro ingressi, ma cominciano anche ad andarsene, a togliere il disturbo, come direbbero appunto gli esterofobi. Soprattutto le donne che non lavorano, che ritornano ai paesi di origine. Anche qui i dati sono limpidi: se nel 2007 cancellavano la loro residenza in Veneto circa 2800 immigrati, oggi sono 5800, più del doppio.

Diciamola tutta: oggi il Veneto è addirittura divenuta la regione con il più basso saldo migratorio di tutta l’Italia del nord: pari allo 0,4 per mille, quindi ancora positivo, ma prossimo allo zero e lontanissimo ad esempio dal 2,3 dell’Emilia.

Bisogna però aggiungere due dati, due ulteriori aspetti, che non sono proprio dei dettagli, e che non sono nemmeno positivi. E primo è che anche gli italiani residenti all’estero frenano i loro ritorni nella madre patria, evidentemente non più così attrattiva. Per di più aumentano gli espatri degli italiani residenti. Per dirla con una parola inquietante e cupa, ripartono le emigrazioni. Quelle emigrazioni che cessarono nel primi anni settanta dopo un secolo di emorragie dolorose, oggi in sordina riprendono. Camuffate da stage o da specializzazioni, le strade verso l’estero si riaprono: soprattutto verso Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Francia, esportiamo giovani laureati e non braccia come nel passato. Perlomeno per ora.

E poi c’è da tener conto che la fuoriuscita degli immigrati ha ripercussioni demografiche ed economiche. Demografiche perché ci toglie il loro contributo al ringiovanimento della nostra fin troppo vecchia società. Economiche perché impoverisce le casse dello Stato (la Fondazione Moressa ha calcolato che i 32 mila stranieri che sono andati via nel 2011 hanno privato il fisco di 87 milioni di Irpef) e riduce la domanda di beni e servizi.

Davvero «da qui se ne vanno tutti», come cantava Caparezza; e nemmeno ne entrano. Segno (brutto) che le strade della ricchezza e del lavoro oggi corrono altrove.

Lettureultima modifica: 2014-02-03T17:13:01+01:00da sdluca1

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