Il PD esca dall’unanimismo di facciata e dal complesso dei migliori

Oggi il PD ha eletto in Assemblea Guglielmo Epifani come segretario reggente. In questo modo si realizzerà quella copertura a sinistra che, a fronte di un capo del governo espressione della tradizione democristiana del PD e della fibrillazione della base  per l’accordo con il PDL, servirà a ritrovare unaepifani.jpg compattezza del partito ed evitare discussioni laceranti.  Una volta risolta la solita preoccupazione dell’unità del partito, sono però risolti i problemi di identità e di linea politica che sono esplosi nella convulsa vicenda delle elezioni del Capo dello Stato e delle successive larghe intese con Berlusconi? A nostro avviso non sarà così, ed anzi sarà felice il giorno nel quale gli appelli all’unità del partito verranno archiviati come espedienti retorici figli di altre epoche, richiami ad una tradizione politica superata, ma che continua ad agire sottotraccia in maniera profonda, per la quale al Partito con la “P” maiuscola spettava un compito salvifico, o rivoluzionario, che da un lato legittimava la supremazia del partito rispetto alle istituzioni, e dall’altro destituiva di legittimità le posizioni eccentriche, vissute come dissidenza o intese con il nemico.

Finora nel PD è mancata la discussione aperta e schietta attorno alla linea politica, le assemblee si sono succedute tra un voto all’unanimità e un voto al 99% su formulazioni spesso fumose, figlie di un’ansia mediatoria produttrice di continua ambiguità. Bisognerebbe riflettere retrospettivamente su cosa abbia determinato l’ambiguità delle conclusioni dell’Assemblea nazionale nella quale furono fissate le regole per lo svolgimento delle Primarie di coalizione del 25 novembre scorso. Appena dopo il voto l’interpretazione data al deliberato da parte della Bindi e dei renziani sul diritto di voto al secondo turno stavano all’opposto. Questa ambiguità ha comportato che tra il primo e il secondo turno si crearono pasticci, sia da parte di Renzi che del comitato che reggeva la responsabilità del coordinamento delle primarie, che produssero un mare di polemiche e alimentarono un senso di indignazione nei confronti di una presunta chiusura ermetica alla partecipazione da parte delle strutture del partito, che hanno poi contribuito al successo di Grillo e alla cosiddetta “non vittoria” del centrosinistra. Sarebbe poi facile ricordare le posizioni di unanimità espresse dagli organismi del PD sulla carta di intenti e sulla costituzione della coalizione di centrosinistra, che da alcuni veniva letta come una prosecuzione dell’esperienza di Monti da altri come la sua smentita. Circostanza che ha prodotto una campagna elettorale giocata totalmente sull’ambiguità, rinverdendo di fatto i fasti della filosofia del “ma anche” di veltroniana memoria.

Almeno l’unanimità per acclamazione sulla proposta di Prodi a Presidente della Repubblica, poi smentita nel segreto dell’urna dai 101 franchi tiratori, dovrebbe produrre una riflessione su quanto sia dannoso per il paese, prima ancora che per il PD, continuare con questo andazzo unanimistico e questa concordia di facciata.

Comprendiamo le ragioni per le quali una discussione autentica e libera dal giogo del dogma dell’unità del partito possa spaventare, ma senza coraggio è difficile affrontare qualsiasi sfida.

Guglielmo Epifani, nel suo discorso all’Assemblea nazionale, ha invece sostenuto che il PD è l’unico partito non personale in Italia, e che dunque è indispensabile per il bene del paese che il prossimo congresso rilanci la coesione e la funzione del PD, altrimenti sarebbe un danno per tutto il paese. Detto in altri termini, per Epifani, che riprende un concetto più volte utilizzato da dirigenti del PD, quello sarebbe l’unico partito democratico: fuori dal PD esiste solo leaderismo, populismo e quant’altro, insomma forme inferiori o degenerate della democrazia. Epifani avverte inoltre come un rischio il fatto che il PD, nato per essere una speranza di cambiamento, possa diventare una parte della crisi della politica e della democrazia.

In questo giro di concetti agisce un antico retaggio e un vecchio vizio della sinistra, che sarebbe l’ora di riconoscere e ripudiare: il senso di superiorità, la sindrome dei migliori che impedisce di guardare alla realtà e si crogiola nella propria smisurata autostima. Non dico del senso di superiorità che chiunque può avvertire nel riconoscersi in uno schieramento politico alternativo a quello di Scilipoti, Dell’Utri, Previti, Ghedini, Mussolini, Santanché o a Borghezio e Renzo Bossi, qua siamo al senso di superiorità non di una cultura politica ma di un soggetto politico come il PD. Un partito politico che non ha alcuna appartenenza alle famiglie politiche europee, un partito che ha sei anni di vita. Che con la sua nascita provocò la fine anticipata del governo Prodi (chiedere allo stesso Prodi) e poi alla prima prova elettorale, nel 2008, consegnò al centrodestra la più grande maggioranza che si sia mai verificata nel Parlamento della Repubblica Italiana. E alle ultime elezioni, si sa, non ha vinto, e oggi giunge per la prima volta al governo del paese grazie ai voti e in alleanza con Berlusconi. Questo per dire che, forse, al di là delle proprie appartenenze, si potrebbe avere un po’ di prudenza nell’identificare l’unico spazio politico democratico in Italia in un solo partito. E si potrebbe avere uno sguardo un po’ più limpido nel guardare all’esito e alla natura di un processo politico particolarmente originale, quello della nascita del Partito Democratico, che non era frutto della Necessità della storia ma è stato il risultato di alcune scelte precise, che potevano anche essere diverse. Qual era il progetto originario di quella nascita? Quale l’identità di quel soggetto politico? Dagli interventi dell’Assemblea nazionale pare che sulle questioni fondamentali non ci sia alcuna identità di vedute, o meglio non ci siano vedute. L’indispensabilità del Partito Democratico viene vissuta come un imperativo categorico che non ha alcun bisogno di motivazioni né argomentazioni, la prosperità del partito è vista come un bene in sé senza che sia chiara cosa questo rappresenti per il paese e i suoi cittadini. La definizione della propria identità viene data come compito al prossimo congresso. Allora è chiaro, per quanto si affermi il contrario, che poi ognuno attinga alle precedenti appartenenze a culture politiche di una qualche consistenza per nutrire la propria iniziativa e visione politica. Quale è la cultura politica originale che il PD ha prodotto nei suoi primi anni? Quale è la sintesi dei riformismi che avrebbe dovuto nascere dalla estinzione delle esperienze politiche di DS e Margherita? In realtà, la funzione di contenitore è stata prevalente sulla natura di partito, la protensione alla vocazione maggioritaria intesa come partito pigliatutto è stata prevalente sulla natura di intellettuale collettivo di un partito portatore di un proprio punto di vista, la tattica finalizzata alla conquista del governo è stata prevalente sulla costruzione di una propria visione del futuro del paese, di un proprio modello di società.

O il Partito Democratico sarà capace di portare fino in fondo lo sguardo sul grumo di incrostazioni del passato e sull’eccesso di autoindulgenza che lo hanno finora caratterizzato e individuare davvero una propria funzione nazionale e una propria identità, dismettendo l’eterna pretesa di autosufficienza che lo accompagna dalla nascita e che gli impedisce di aprirsi senza doppiezze e furbizie all’altro da sé, oppure l’egemonia culturale berlusconiana, nelle sue varie espressioni, avrà ancora lungo corso nel nostro paese.

Il PD esca dall’unanimismo di facciata e dal complesso dei miglioriultima modifica: 2013-05-11T18:40:00+02:00da sdluca1
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