L’odio di Renzi per i poveri

Nella campagna politica e mediatica che va avanti da mesi contro il reddito di cittadinanza, si è raggiunto ora l’apice della falsificazione e dell’odio contro i poveri con la sua ridenominazione spregiativa in “reddito di criminalità”. L’epiteto si deve, guarda caso, a Matteo Renzi, il più fiero e coerente oppositore in Italia del provvedimento. Quando i leghisti, assieme ai Cinque Stelle, approvarono il provvedimento, e Leu si astenne pur stando all’opposizione del governo Conte 1, la dichiarazione di voto per il PD la fece Renzi, al posto del capogruppo. A differenza di altri oppositori del provvedimento, come Forza Italia e Fratelli d’Italia che criticavano singoli aspetti del meccanismo del reddito di cittadinanza e lamentavano il mancato accoglimento delle proposte di modifica da loro presentate, alcune delle quali del tutto motivate, Renzi diceva: “È la direzione di marcia che è sbagliata, non sono le tecnicalità.” Una bocciatura dell’intero provvedimento in quanto tale, bollato come “assistenzialismo”. Ciò spiega bene perché la proposta avanzata dall’Alleanza contro la Povertà già nel 2013 per istituire un reddito di inclusione sociale, che faceva perno sui servizi sociali comunali, diventa legge soltanto quando Renzi lascia il governo e viene sostituito da Gentiloni. Nell’aprile 2017 Gentiloni firma un’intesa con l’Alleanza Contro la povertà (composta da sindacati, Caritas e associazioni), lo fa diventare legge e dal 1 gennaio 2018, per la prima volta, l’Italia ha una misura di carattere universale contro la povertà, il Reddito di Inclusione. Che poi verrà sostituito dal reddito di cittadinanza, con ben altro stanziamento rispetto alla poca cosa del Rei, con il nuovo governo.

Renzi è stato esplicito anche questa estate, quando ha dichiarato: “Voglio riaffermare l’idea che la gente “deve soffrire”, rischiare, giocarsela. I nostri nonni hanno fatto l’Italia sudando e spaccandosi la schiena, non prendendo soldi dallo Stato”. Gli risponderà magistralmente Chiara Saraceno, che così esplicita la visione renziana: poveri in coda“Godere di una eredità, nascere in una famiglia agiata che offre buone occasioni per sviluppare le proprie capacità e incontrare opportunità favorevoli, avere dei genitori con mezzi sufficienti per dare una mano in caso di necessità, in generale nascere, crescere, vivere in condizioni favorevoli, o almeno non ostili non è una causa di indebolimento della fibra morale e della capacità di iniziativa. Essere poveri invece espone di per sé al rischio di un indebolimento del carattere, che verrebbe ulteriormente aggravato dal ricevere un aiuto. Questo, almeno, è il pensiero di Renzi, per altro in buona compagnia nella sua ostilità al reddito di cittadinanza. L’aiuto che si riceve per “diritto di nascita” è dato per scontato come sempre positivo. L’aiuto pubblico a chi sul primo non può contare, invece che essere inteso come una sorta di livellamento del terreno di gioco, di garanzia minima per consentire alle persone di vivere decentemente mentre cercano una occupazione o acquisiscono le qualifiche necessarie per trovarne una, è inteso viceversa sempre come assistenzialismo negativo. Anziché aspettarsi l’aiuto che i non poveri ricevono dal contesto in cui vivono, i poveri “devono spaccarsi la schiena”, oltre che “soffrire, provare, rischiare”.

Il pensiero sottostante alla avversione pregiudiziale di Renzi verso qualsiasi forma di sostegno pubblico ai poveri è quella che è stata definita ideologia della meritocrazia. Se infatti negli ultimi decenni è invalso nel dibattito pubblico l’esaltazione della meritocrazia come metodo virtuoso per dare opportunità ai meritevoli rispetto ai raccomandati dentro un ambito ristretto, sia esso la pubblica amministrazione o il mondo accademico, quando invece si erge la meritocrazia a criterio generale della gestione della società, si realizza un costrutto ideologico che intende discriminare i “non meritevoli”.  Il termine “meritocrazia”, del resto, fu  introdotto da Michael Young in un libro distopico del ’58 nel quale immaginava nel 2033 una società dominata dal criterio meritocratico e di conseguenza tanto diseguale da provocare la rivolta sociale degli esclusi. La meritocrazia quindi produce ingiustizia. Per usare le parole di Luigino Bruni: “Nessuno lo dice mai esplicitamente, ma dietro tanti discorsi, oggi come ieri, c’è l’idea che la povertà sia una colpa. In fondo il vero, grande problema della meritocrazia è che giustifica e legittima le disuguaglianze. Come se le disuguaglianze, che da sempre esistono, e forse sempre esisteranno, avessero bisogno di avvocati difensori. È evidente che se poniamo a confronto meritocrazia e clientelismo il discorso è già falsato. Il punto vero è che la meritocrazia è diventata la legittimazione etica della diseguaglianza, in nome di un grosso equivoco: che il talento sia merito (e non dono). L’altro effetto collaterale riguarda la povertà: se il talento è merito e quindi benedetto, il non talento diventa demerito e maledetto. La povertà come maledizione cresce insieme alla meritocrazia, basta guardare cosa accade nei paesi più meritocratici del mondo.”

In Spagna è stato coniato un termine, “aporofobia”, paura del povero, per descrivere questo atteggiamento di ripulsa, di stigma e di condanna, nei confronti dei poveri. Ancora più evidente se si tratta di stranieri.

La nostra Costituzione, invece, all’articolo 3, recita che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano «di fatto» — noi vogliamo che sia aggiunto — la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». 

Gli ostacoli che la Repubblica deve rimuovere non sono solo quelli formali o meramente giuridici, ma “di fatto”. A perorare l’introduzione di quella locuzione nei lavori dell’Assemblea Costituente, spiegandone perfettamente la rilevanza, fu la deputata comunista Teresa Mattei: “Per questa ragione io torno a proporre che sia migliorata la forma del secondo comma dell’articolo 7 nel seguente modo: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano «di fatto» — noi vogliamo che sia aggiunto — la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Voi direte che questo è un pleonasmo. Noi però riteniamo che occorra specificare «di fatto». Vogliamo qui ricordare quello che avviene in altri paesi democratici. Si dice che l’Inghilterra sia un paese democratico: ebbene, nella democratica Inghilterra le donne hanno conquistato formalmente il riconoscimento della parità assoluta dei diritti circa trent’anni fa, nel 1919. Ma ancora oggi in questa libera e democratica Inghilterra, dove le donne dovrebbero godere di tutti i diritti come gli uomini, poco si è fatto, perché ci si è limitati a sancire formalmente una conquista, che poi nessuno ha voluto realizzare nella pratica. E là, dopo trenta anni di vita democratica o di possibilità di vita democratica per le donne, queste non hanno potuto accedere a tutti i posti che loro spettavano. E noi vediamo che nella stessa Inghilterra è proibito, per esempio, di sposarsi alle maestre, alle insegnanti di alcune categorie. Orbene, noi riteniamo che questo esempio dell’Inghilterra possa servire per noi, che valga come insegnamento, valga a chiarire che quelle conquiste che noi donne facciamo nella vita nazionale — le conquiste giuridiche — non possono essere realizzate pienamente nella vita, se non sono accompagnate da altre conquiste, da conquiste di carattere sociale, economico, se non sono accompagnate, cioè, da una completa legislazione in proposito.”

Alla fine, ancor oggi si pone la questione e la divisione, tra chi intende in maniera meramente formale l’eguaglianza e la pari dignità sociale, ma nei fatti la contrasta, e chi intende inverarle nella sostanza. Per chi avesse smarrito il senso della differenza tra destra e sinistra, un buon punto di partenza per ritrovarlo.

 

L’odio di Renzi per i poveriultima modifica: 2021-11-16T21:27:54+01:00da sdluca1
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