La mistificazione del Jobs Act

Si possono avere idee diverse su come regolare il mercato del lavoro, si può anche teorizzare la più completa deregulation. E ci si può così confrontare sul merito. Ma quello che pare insopportabile, nella propaganda che viene fatta al Jobs Act, è la mistificazione sistematica della realtà. Ne è protagonista anche l’improbabile ministro del Lavoro Poletti, che così dichiara intervistato da una rivista di commercialisti:

Domanda: “Perché le imprese dovrebbero ricorrere al contratto a tutele crescenti se rimangono in vigore alternative appetibili quali il contratto a termine senza causale e l’apprendistato?”

Poletti: “Perché il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ha una notevole

convenienza economica per l’impresa. Nella legge di stabilità è infatti prevista, per chi sceglie questa forma contrattuale, la decontribuzione per tre anni dei nuovi assunti. L’effetto, sommato a quello della deducibilità integrale della componente costo del lavoro dall’Irap, prevista anch’essa nella stessa legge, è di un consistente risparmio per l’impresa. Del resto, questa scelta non è casuale: in questo modo vogliamo rendere il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti la forma tipica del rapporto di lavoro, scoraggiando il ricorso a forme più o meno precarie. Va da sé che l’imprenditore sceglierà la forma contrattuale che riterrà più rispondente alle sue esigenze produttive ed organizzative, considerando anche che il ricorso al contratto a termine e all’apprendistato è stato reso più semplice e sicuro con il decreto lavoro.”

Il Ministro dà ad intendere che il contratto cosiddetto a “tutele crescenti” sarebbe legato a convenienze economiche per le imprese. Non è vero. Le agevolazioni fiscali, già in vigore dal 1 gennaio in base alla legge di stabilità, valgono per i contratti a tempo indeterminato “vecchia maniera”, cioè con la piena validità dell’art. 18 per le aziende con più di 15 addetti. Dal 1 marzo, entrando in vigore i primi decreti delegati del Jobs Act, viene cancellato l’art.18 per tutte le nuove assunzioni o riassunzioni, ma le agevolazioni permarrebbero anche se il Governo avesse rinunciato a emanare i decreti e fosse rimasta l’attuale forma di tempo indeterminato. Le due circostanze sono del tutto indipendenti, e il ministro del Lavoro non può non saperlo. Quello che probabilmente il Poletti vuole nascondere, mistificando la realtà, è che le agevolazioni della legge di stabilità sono state pensate per spingere, attraverso una scontistica tanto rilevante quanto indiscriminata alle imprese, un tipo di contratto che di per sé non produrrebbe un posto di lavoro in più, perché non è l’art. 18 a frenare le assunzioni ma la mancanza di lavoro. Già si registra, dal 1 gennaio, un buon andamento delle assunzioni, in Veneto pare con un aumento sull’ordine delle 1700 in più in gennaio, delle assunzioni a tempo indeterminato. Questi lavoratori assunti godranno delle tutela dell’art.18 nelle imprese sopra i 15 dipendenti, e non ne godranno nelle altre imprese. Lo ha dichiarato anche il presidente degli industriali veneti, Zuccato, che a gennaio annunciava di voler assumere perché convinto dal Jobs Act e ora ammette di avere assunto 4 persone perché ne aveva bisogno e non gli importa se il nuovo contratto partirà a marzo. Del resto lo dichiarava anche Renzi, quand’era sindaco di Firenze, tre anni fa: “Ho detto sull’articolo 18 e lo ripeto qui che non ho trovato un solo imprenditore, in tre anni che faccio il sindaco, che mi abbia detto “Caro Renzi, io non lavoro a Firenze o in Italia, non porto i soldi, perché c’è l’articolo 18″. Nessuno me l’ha detto. Non c’è un imprenditore che ponga l’articolo 18 come un problema.”

Un’altra cosa che dice il ministro del Lavoro è che l’intenzione è quella di scoraggiare forme di lavoro più precarie, e contemporaneamente afferma di aver già reso più facile con il decreto lavoro dello scorso anno il ricorso al tempo determinato e all’apprendistato. E potrebbe aggiungere che con i nuovi decreti delegati del Jobs Act si rende ancora più libero il ricorso al tempo determinato e all’apprendistato rispetto a quel decreto. La contraddizione si spiega con l’affermazione che ovviamente “l’imprenditore sceglierà la forma contrattuale che riterrà più rispondente alle sue esigenze produttive ed organizzative”. Cioè la vera finalità dell’operazione di riforma delle forme contrattuali è quella di ampliare la scelta da parte dell’azienda, agevolando anche i demansionamenti, sull’organizzazione del lavoro in azienda, indebolendo drasticamente le tutele dei lavoratori e il loro coinvolgimento nelle scelte organizzative aziendali. L’accento è tutto sulle esigenze del datore di lavoro e non del lavoratore. Mistificando, la propaganda governativa vuole convincerci che se il datore di lavoro ha più libertà di fare un po’ quello che gli pare, allora ne verranno a cascata dei vignetta-articolo18benefici per il lavoratore dato che “se stanno bene gli imprenditori stanno bene tutti”. E’ una visione idilliaca e irrealistica delle dinamiche economiche, frutto di una visione ottimistica e ingenua del mercato e della sua intrinseca capacità di funzionamento a vantaggio di tutti. Un presupposto ideologico, neoliberista, tipico del pensiero conservatore. Quello che negli USA è molto facilmente leggibile: lì infatti i repubblicani difendono gli sconti fiscali ai ricchi e ai super ricchi avversati da Obama, con l’idea che sono i ricchi a produrre ricchezza, che la disuguaglianza non sia da limitare ma anzi da incentivare in quanto motore dello sviluppo generale. E in Italia invece viene mascherato da un mare di chiacchiere e di imbrogli concettuali, fino al punto di far passare per privilegiati da colpire i lavoratori a tempo indeterminato e contrapporli ai precari.

La mistificazione del Jobs Actultima modifica: 2015-02-26T00:32:00+01:00da sdluca1
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